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Perché gli stili di accompagnamento non bastano a spiegare la forza di un arranger

Per esigenze musicali recenti, mi sono reso conto che il progetto che stavo seguendo non richiedeva l’uso degli stili di accompagnamento. Da lì, è nata l’idea di affiancare al mio arranger un sintetizzatore (o stage keyboard) più leggero del mio attuale strumento che supera i dieci chili di peso: qualcosa da portare ai live senza fatica. Accettando di rinunciare agli stili, tuttavia restava vivida la necessità un set di voci professionali, comparabile a quello della mia tastiera arranger e, soprattutto, un sistema di memorie capace di gestire il mio repertorio che si aggira sui quattrocento brani.

Il requisito era chiaro: dovevo poter suonare con almeno tre voci in layer per le parti principali, avere una voce in split a sinistra, aggiungere una traccia di basso quando necessario, memorizzare il transpose del brano e richiamare le impostazioni complete dello strumento in modo rapido, semplicemente cercando il titolo. Così sarei stato pronto in un attimo per qualsiasi esecuzione dal vivo.

Fonte: Yamaha Keyboards Official

Ho iniziato a guardarmi intorno e ho trovato sintetizzatori e workstation con palette sonore ricchissime: pianoforti acustici ed elettrici, organi elettronici e liturgici, archi, legni, ottoni, synth e pad. Tutto ciò che serve per coprire il repertorio in modo vario e articolato, con la possibilità di applicare effetti e personalizzare i suoni.

All’inizio sembrava tutto perfetto, finché non ho dovuto affrontare il tema della gestione delle scene (Registration, SongBook, Performance, Keyboard Set… chiamatele come volete) e delle scalette. Qui sono emersi i problemi: alcuni strumenti offrivano poche scene, altri non salvavano tutti i parametri, diversi non gestiscono le scalette, molti non memorizzavano nemmeno il titolo del brano e quasi nessuno permetteva una ricerca rapida digitando il titolo o parte di esso. Per chi deve richiamare al volo un brano tra centinaia di impostazioni, questo è un limite enorme. La soluzione sembrava essere in un software esterno su tablet (Camelot Pro, Gig Performer, Cantabile, MainStage, ecc.), ma questa scelta intricava il workflow: rispetto a un arranger, dove tutto è integrato, dover rinunciare alle scene interne dello strumento mi sembrava una complicazione inutile, soprattutto nel mio caso: porto una sola tastiera con me e non ho bisogno di controllare più strumenti né plugin VST.

C’erano poi altre questioni pratiche: alcuni non hanno il pulsante Transpose sul pannello; e poi a me serve un leggio per il tablet con gli spartiti, ma nessun synth lo prevede. Inoltre, oggi uso gli speaker integrati della mia tastiera come spia, mentre le stage keyboard non hanno diffusori audio di bordo: avrei dovuto procurarmi un monitor portatile da palco.

Fonte http://www.roland.com

Alla fine, mi sono reso conto con maggiore convinzione del valore dell’arranger, dove tutto è compatto e immediato. Io oggi, in pochi minuti, poso lo strumento sul cavalletto, collego la corrente, appoggio il tablet sul leggio integrato, connetto le uscite audio al mixer, accendo e sono subito operativo, al cento per cento. Gli altri strumenti, per quanto leggeri, richiedono invece un ecosistema di accessori: software esterno per gestire le memorie dei quattrocento brani e le scalette, monitor da palco e leggio aggiuntivo. Avrei potuto risparmiare fino a cinque chili sullo strumento, ma quel peso l’avrei distribuito su più oggetti. Il risultato? Preparazione dei setup più articolato, trasporto più macchinoso, peso complessivo maggiore e tempi di montaggio e smontaggio più lunghi.

La mia ricerca mi ha condotto a una semplice riflessione: la leggerezza potrebbe non bastare, se compromette praticità e velocità operativa.

Continua…